Sott’acqua.
Mi pare che l’idea delle vongole di nascondersi dentro a un guscio per non farsi mangiare non abbia funzionato benissimo. (azael, Twitter)
Questo mese proseguiamo il ragionamento iniziato il mese scorso con la metafora dell’iceberg.
Abbiamo detto che la punta dell’iceberg è ciò che è visibile di noi a chi entra in relazione con noi: il nostro aspetto fisico, il modo in cui ci esprimiamo con il viso e con il tono di voce (linguaggio paraverbale), le nostre posture e la nostra andatura e come ci muoviamo in relazione ai contesti in cui ci troviamo (linguaggio corporeo), le parole che scegliamo e come strutturiamo in frasi e discorsi i nostri pensieri (linguaggio verbale). Potremmo dire che la nostra punta dell’iceberg è la nostra dimensione personale pubblica. Una parte che esprimiamo, talvolta in modo consapevole, talvolta inconsapevole, ma che è comunque visibile a chi incrocia il nostro cammino.
Quegli aspetti di noi che rendiamo visibili all’esterno consapevolmente possono far parte sia della nostra sfera pubblica, che di quella privata; talvolta solo della prima, o solo della seconda.
All'interno della sociologia, la sfera pubblica e quella privata sono concepite come due ambiti distinti in cui le persone operano quotidianamente: la sfera pubblica è il regno della politica in cui gli estranei si riuniscono per impegnarsi nel libero scambio di idee ed è aperto a tutti (possiamo includere il contesto lavorativo, scolastico, sportivo…), mentre la sfera privata è un regno più piccolo, tipicamente chiuso (come una casa), che è aperto solo a coloro che hanno il permesso di accedervi. Il confine tra sfera pubblica e sfera privata non è fisso; è dinamico e permeabile, ed è sempre in evoluzione.
C’è poi un’altra sfera personale, che identifichiamo qui con la parte sommersa dell’iceberg, quella sfera che non fa mostra di sé.
Anche per la parte sommersa dell’iceberg vale qualcosa di simile alla punta: può cioè trattarsi di aspetti di noi che conosciamo bene, o che evitiamo di guardare, o, ancora, di cui non abbiamo consapevolezza. Per ora, limitiamoci a parlare di quelle parti di noi che conosciamo, che teniamo nascoste sott’acqua, e che magari tentano talvolta di emergere al pelo dell’acqua, soccombendo alla fine. Si tratta tendenzialmente di aspetti di noi stessi che non ci piacciono, che non accettiamo. Ce ne vergogniamo; temiamo che possano essere dannosi alla nostra vita sociale; immaginiamo che possano creare sofferenza agli altri; ci preoccupiamo che ci rendano antipatici, sgradevoli, irritanti; e via discorrendo. Ora, qualunque sia il motivo per cui li teniamo lì sotto, sicuramente questo ci provoca almeno due tipi di sofferenza: quella dovuta a non poterci essere noi stessi e a sentirci inadeguati, auto costringendoci a indossare maschere scomode; quella dovuta a tutte le tensioni emotive, ai pensieri autocritici (e non solo autocritici!), e ai blocchi respiratori e muscolari che un atteggiamento difensivo dal mondo esterno (da noi stessi, piuttosto!) ci provoca.
In questo caso, purtroppo, trattandosi di aspetti di noi che teniamo segreti, gli altri non possono esserci utili e farci da specchio.
Possiamo ritenere che l’impatto che questo atteggiamento ha sulla nostra vita sia accettabile. Quando, invece, il disagio dovesse farsi pressante e le parti nascoste dovessero iniziare in qualche modo a spingere verso la superficie creandoci scomodità emotive, mentali e corporee impegnative da sostenere, possiamo decidere che è il momento di metterci in gioco con una professionista. Anche perché, sorpresa sorpresa, a volte quelle parti possono rivelarsi preziose risorse, che, se esplorate, possiamo imparare a gestire e vivere meglio.
Cristina Perillo
(per rispondere, per commentare, per un incontro conoscitivo basta scrivermi)