O così. O pomì?
“Tutto è relativo. Prendi un ultracentenario che rompe uno specchio: sarà ben lieto di sapere che ha ancora sette anni di disgrazie.” (A.Einstein)
Iniziare la giornata lavorando, anziché con una passeggiata, anche quando ne avremmo l’opportunità, perché “prima il dovere e poi il piacere”.
Bambini, evitare di esprimere la rabbia pestando i piedi, perché “non si fa”.
Adottare una opinione, perché “lo sanno tutti che…”.
Bambine, non fare la lotta, o non giocare a calcio, per non sentirci dare del “maschiaccio”.
Chi di noi, da bambino o da adulto, non si è ritrovato, una volta almeno, in una di queste situazioni? (O simili; l’elenco potrebbe andare avanti per un bel po’).
Adattarci a pensieri popolari, luoghi comuni, comportamenti che ci vengono inculcati come “corretti” in contrapposizione ad altri considerati “scorretti”, e replicarli senza riflettere sul nostro punto di vista sono tutti esempi della trappola del pensiero conformista, meglio nota come pregiudizio di conformità.
Il pregiudizio di conformità ha varie radici e può verificarsi quando cambiamo il nostro comportamento per adattarci al gruppo a causa di un desiderio profondo di appartenenza. Vogliamo sentirci ben accetti, inseriti, ben visti, ed evitare di sentirci mal giudicati, o, nel migliore dei casi, sui generis.
Abbiamo un desiderio innato di appartenere e di essere accettati dai nostri gruppi sociali di riferimento, dalla famiglia in avanti. La paura del rifiuto sociale può portarci a conformarci all’opinione della maggioranza, a regole, a comportamenti, anche se non siamo d’accordo.
Tutto questo, se agito a livello inconsapevole, può compromettere la nostra capacità di esprimere giudizi imparziali, può limitare la nostra visione e può indurci a non valutare, o addirittura a non vedere che abbiamo delle alternative, adottando invece una serie di atteggiamenti e pensieri che non sono del tutto nostri. Facendoci spesso incontrare una forte sensazione di disagio, ma senza sapere esattamente a cosa sia dovuta.
Cosa fare, allora, per imparare a intercettare quando il pregiudizio di conformità ha un ruolo in una situazione che stiamo vivendo? Prendiamola con seria leggerezza. Ci viene in aiuto uno slogan di una famosa pubblicità degli anni Ottanta, divenuto poi un popolare modo di dire: “O così, o pomì”. Stava a significare, nella pubblicità, che l’unica alternativa possibile alla bontà della passata di pomodoro fatta in casa fosse Pomì, la passata venduta in comodi bricchi di cartone, pronta all’uso. Oggi, la frase ha assunto un significato differente, e viene usata per lasciare intendere che non c’è possibilità di scelta, che non c’è un’opzione alternativa, come dire “o così, o così”.
“O così, o pomì” ci viene in aiuto se, trovandoci di fronte a un nostro comportamento che non sentiamo veramente nostro e che piuttosto ci fa sentire un certo disagio verso noi stessi, aggiungiamo un punto di domanda: “o così, o pomì?” Se, rispondendo, siamo in grado di vedere un’alternativa che ci farebbe sentire più a posto con noi stessi, per quanto questa nuova opzione possa sembrarci inadeguata al contesto, possiamo comunque riconoscerla ed eventualmente valutare se sia possibile metterla in campo, magari mediando un po’ con il contesto, se necessario.
Un ottimo modo per liberarci di questa trappola è poi, una volta intercettata l'alternativa, imparare a dire no. Imparando a riconoscere che una nuova alternativa è possibile, e che un modo di pensare o di agire diverso da quello comune nel gruppo dei nostri pari esiste ed è legittimo. Occorre, dunque, imparare a dire no. A noi stessi, prima di tutto. Alla nostra paura di essere misconosciuti, lasciati da parte, giudicati. Trovando magari una bella sorpresa: noi potremmo sentirci a nostro agio e magari, qualche volta, gli altri potrebbero interessarsi al nostro pensiero o comportamento divergente.
E per i più curiosi e amanti del retrò, la famosa pubblicità del 1985.
Cristina Perillo
(per rispondere, per commentare, per un incontro conoscitivo basta scrivermi)
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