Cambiare.
Quanti sono i piccoli e grandi cambiamenti che ognuno di noi ha desiderato, e talvolta affrontato, almeno una volta nella vita? Disinnescare una cattiva abitudine: basta addormentarmi scrollando le pagine dei social network. Innescare una buona abitudine: svegliarmi 30 minuti prima al mattino, per iniziare la giornata con una breve meditazione, o magari per riuscire ad andare al lavoro a piedi. Interrompere un automatismo: smettere di ricorrere al cioccolato, ogni qual volta mi coglie una certa tristezza, accompagnata da senso di vuoto. Lasciare un lavoro. Provare qualcosa di nuovo per coltivare la mia curiosità e la capacità di stupirmi. Uscire da una relazione fatta di sofferenze.
Ma ci siamo mai chiesti com’è fatto un cambiamento?
Ogni cambiamento è un processo dinamico che contempla diverse fasi. A prescindere da come si intenda andare incontro a un cambiamento (appiccicando post-it su tutti gli specchi della casa, lavorando sodo, praticando mindfulness, chiedendo aiuto a un counselor o a un coach…) quello che accomuna tutti i cambiamenti, di qualunque natura essi siano, è la sequenza di fasi necessarie a portarlo a compimento. Semplificando, se posso immaginare un cambiamento come un percorso per muovermi da A a B, le fasi potrebbero essere: avvertire una spinta verso qualcosa, o via da qualcosa; mettere a fuoco il desiderio di andare da A a B; decidere di andare da A a B e pianificare come farlo; iniziare a muovermi per andare da A a B; arrivare a B e coltivare le condizioni per restarci.
Il modello di riferimento per me è il ciclo del cambiamento di Prochaska e Di Clemente, applicabile tanto a un individuo quanto a un gruppo (ad esempio un team aziendale). Al di là di entrare nel merito delle singole fasi, m’interessa portare l’attenzione sulla fase di ricaduta: muovendomi da A a B, per esempio, posso scoraggiarmi a un certo punto, perché B mi appare troppo distante e io mi sento troppo stanca, fino a scegliere di fare dietrofront e tornare ad A.
Gli studi sul cambiamento di Prochaska e Di Clemente ci dicono che, perché il cambiamento avvenga realmente, è mediamente necessario ripetere il ciclo 4-5 volte. Questo significa ricadere nella vecchia dinamica, ritornare 3-4 volte ad A, prima di arrivare a B, o anche dopo aver raggiunto B.
Ho sempre considerato confortante questa normalizzazione della ricaduta, ma nel termine qualcosa non mi ha mai convinta fino in fondo. Vocabolario alla mano, “ricaduta: il fatto di ricadere. Raro in senso proprio, più comune in senso morale (una r. nel vizio, nel peccato, e analogamente nell’abuso dell’alcol e simili), è specifico in medicina per indicare la riacutizzazione o la reinsorgenza di un processo morboso apparentemente superato o in via di esaurimento: il malato ha fatto (o ha avuto) un’altra r.; si teme una r.;...”. Non mi convince, perché nel linguaggio e nella percezione comune evidenzia qualcosa di doloroso (cadere certamente non dà sensazioni piacevoli) e collegato a un’idea di fallimento. Vocabolario alla mano, scelgo “ripartenza: nuova partenza, nuovo inizio; riavvio (di un’attività, di un progetto ecc.): es. dopo le ferie estive, la ripartenza è stata faticosa.”
Ecco allora che normalizzare un ciclo di cambiamento come una successione di 6 fasi specifiche, che mediamente si ripetono 3-4 volte, inserendo come momento chiave del ciclo la ripartenza può forse aiutarci a spostare l’attenzione dal concetto di prezzo da pagare, a quello di una sorta di allenamento, utile per muoverci verso il nuovo in modo sempre più efficace.
Cristina Perillo
(per rispondere e per commentare basta scrivermi)